martedì 10 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo8-

CAPITOLO 8

Il Nordic Walking ... libertà di andare.


Foto di Placido Mondin
Una salita di poco conto e le gambe del ragazzo che mulinavano sicure verso la casetta sopra la rupe. Il sentiero era uscito dal bosco da pochi metri, quando un melo accolse il gruppo, anticipando l'irta ascesa, pur breve, verso quel bivacco privato. Tutto intorno vi era un orticello recintato , con alte reti che dovevano proteggere i prodotti della terra dai caprioli e dai cinghiali.

Io andavo avanti seguendo la Bice, con passo caracollante, quasi che la voglia di correre stesse per abbandonarmi definitivamente e così dopo una decina di minuti ad arrancare imposi l'avanzata al passo.
Fermai tutti all'improvviso iniziai ad estrarre dallo zaino visibilmente deformato, una serie di bastoncini.
Eravamo ai piedi del Col di Dante.
Mi impegnai pazientemente, dapprima a convincere Benito, che deciso, respingeva l'ipotesi "camminata nordica" ed una volta vinte le sue resistenze , con certosino puntiglio, cominciai a regolare gli attrezzi, giacchè ognuno potesse camminare con un bastoncino a lunghezza regolare per se stesso.
Il passo era drasticamente ridotto in scioltezza , data la presenza di questi estranei elementi, almeno per qualcuno.
Entrammo di nuovo nella boscaglia, dopo aver lambito gli antri di entrata del borghetto del Col di Dante, ove l'edera abbracciava le povere mura dell'abitato e dava a quell'eremo un aspetto forse triste, di certo abbandonato al destino di chi soccomberà inesorabilmente al tempo. Travi penzolanti, vetri di finestra ormai completamente frantumati e grate in ferro che davano l'idea della moda di un tempo andato che proteggeva gli abitanti dagli agenti esterni e da eventuali intrusioni non gradite, rivestendo le case di protezioni ferrose, a loro modo vagamente carcerarie.
Passati oltre il fondo del terreno diveniva fangoso, ma ben camminabile, dato che la sede del sentiero era stata picconata di recente verso monte, allargata quanto bastava a far passeggiare tranquillamente anche i meno esperti tra i viandanti del sottobosco.
Non ci volle molto a giungere alla fine di quel toboga naturale e d'incanto ci trovammo abbagliati dalle luci dell'alba proiettate dal cielo alla val Sassumà. 
Di fronte a noi un' insenatura che aveva tratti panoramici di polinesiano aspetto, tra l'asprezza della roccia ed il verdeggiare dell'umida vegetazione fitta attorno alle cengie verticali molto numersose. In alto a destra un monumento naturale di rara bellezza, la Torre Manuela o forse torre Onigo, non ricordo bene...
Ci avviammo lungo la strada in leggera discesa, pronti ad andare verso la valle dell'inferno.
Tra i tanti, Giovanni "venessian" andava avanti silente e tranquillo, conoscendo la via da esperienze precedenti, lui che era ed è cognato del mastro delle erbe della val di Schievenin, il Vittorio da Venezia.
Il ragazzo teneva il passo e si guardava attorno , pervaso, si notava da una forma evidente di assuefazione a quei paradisiaci scorci.
Io camminavo...
Là dietro forse accadeva qualcosa, mentre il Benito accelerando mugugnava guadagnando strada d'avanscoperta.
Dietro a tutti Giacomo e Bice bisbigliavano e volgendo loro qualche fugace sguardo curioso, si notavano sfregamenti forse non fortuiti, gomito contro gomito.
Tutto intorno era pace, una quiete che la valle donava ai suoi ospiti, senza pretendere silenzi umani, ma inducendone l'essere con fascino ineguagliabile allo sguardo , suoni e profumi naturali inebrianti ...
La valle dell'Inferno era nel suo pieno, ma dava tutt'altra percezione, certamente beata ed angelica.

Un paradiso incavato nel mondo.

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