CAPITOLO 8
Il
Nordic Walking ... libertà di andare.
Foto di Placido Mondin |
Io andavo avanti seguendo la Bice, con passo caracollante, quasi che la voglia
di correre stesse per abbandonarmi definitivamente e così dopo una decina di
minuti ad arrancare imposi l'avanzata al passo.
Fermai tutti all'improvviso iniziai ad estrarre dallo zaino visibilmente
deformato, una serie di bastoncini.
Eravamo ai piedi del Col di Dante.
Mi impegnai pazientemente, dapprima a convincere Benito, che deciso, respingeva
l'ipotesi "camminata nordica" ed una volta vinte le sue resistenze ,
con certosino puntiglio, cominciai a regolare gli attrezzi, giacchè ognuno
potesse camminare con un bastoncino a lunghezza regolare per se stesso.
Il passo era drasticamente ridotto in scioltezza , data la presenza di questi
estranei elementi, almeno per qualcuno.
Entrammo di nuovo nella boscaglia, dopo aver lambito gli antri di entrata del
borghetto del Col di Dante, ove l'edera abbracciava le povere mura dell'abitato
e dava a quell'eremo un aspetto forse triste, di certo abbandonato al destino
di chi soccomberà inesorabilmente al tempo. Travi penzolanti, vetri di finestra
ormai completamente frantumati e grate in ferro che davano l'idea della moda di
un tempo andato che proteggeva gli abitanti dagli agenti esterni e da eventuali
intrusioni non gradite, rivestendo le case di protezioni ferrose, a loro modo
vagamente carcerarie.
Passati oltre il fondo del terreno diveniva fangoso, ma ben camminabile, dato
che la sede del sentiero era stata picconata di recente verso monte, allargata
quanto bastava a far passeggiare tranquillamente anche i meno esperti tra i
viandanti del sottobosco.
Non ci volle molto a giungere alla fine di quel toboga naturale e d'incanto ci
trovammo abbagliati dalle luci dell'alba proiettate dal cielo alla val Sassumà.
Di fronte a noi un' insenatura che aveva tratti panoramici di polinesiano
aspetto, tra l'asprezza della roccia ed il verdeggiare dell'umida vegetazione
fitta attorno alle cengie verticali molto numersose. In alto a destra un
monumento naturale di rara bellezza, la Torre Manuela o forse torre Onigo, non
ricordo bene...
Ci avviammo lungo la strada in leggera discesa, pronti ad andare verso la valle
dell'inferno.
Tra i tanti, Giovanni "venessian" andava avanti silente e tranquillo,
conoscendo la via da esperienze precedenti, lui che era ed è cognato del mastro
delle erbe della val di Schievenin, il Vittorio da Venezia.
Il ragazzo teneva il passo e si guardava attorno , pervaso, si notava da una
forma evidente di assuefazione a quei paradisiaci scorci.
Io camminavo...
Là dietro forse accadeva qualcosa, mentre il Benito accelerando mugugnava
guadagnando strada d'avanscoperta.
Dietro a tutti Giacomo e Bice bisbigliavano e volgendo loro qualche fugace
sguardo curioso, si notavano sfregamenti forse non fortuiti, gomito contro
gomito.
Tutto intorno era pace, una quiete che la valle donava ai suoi ospiti, senza
pretendere silenzi umani, ma inducendone l'essere con fascino ineguagliabile
allo sguardo , suoni e profumi naturali inebrianti ...
La valle dell'Inferno era nel suo pieno, ma dava tutt'altra percezione,
certamente beata ed angelica.
Un paradiso incavato nel mondo.
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