martedì 31 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo24-

CAPITOLO 24

Gruppo compatto



Pochi istanti per meditare e quasi senza accorgercene siamo sui terreni del tratto piu' duro della strada silvo pastorale. Sarà un venticinque per cento, su per giu'...Quì e là, cataste di legname , abbattute e tagliate da poco. L'immagine che mi torna alla mente, io e Giacomo seduti ed un vecchio con nipote che ci supera in quella "San Daniele" ormai storica. Sulla cima saper di trovare il piano ...ed una sorta di finestra sul mondo . Il passo si fa piu' pacato, i respiri coordinati ad esso e la spinta di braccia piu' potente, in parallela. Eh già, a dispetto dei contestatori dell'indefinito, quelli che pretenderebbero di conoscerti, giudicare, stoppare , ostacolare persino...al di là di ciò, la tecnica della camminata nordica, mio elemento in piu' , rispetto a quella volta. Dicono che sia valida sino al dieci per cento di pendenza e forse hanno ragione, ma poi chissà quanto spesso avranno superato tal pendenza, per dar giudizio, tali giudici auto celebrativi? Io vivo tra le montagne, dovè il pianeggiare è rado ed il pendere è sovente...Ho imparato ad adattare molte cose al mio vivere e detesto i canoni chiusi. Ho cercato in questi anni di variare le mie conoscenze ed applicare alle difficoltà ed oggi posso dire di fare un buon nordic walking, per me, su di ogni terreno e di ogni dislivello diretto, poichè sarei pazzo a cercar di tarpare il mio essere, frenando l'impulso di conoscere e conoscermi, in cammino. Una volta correvo sempre ed oggi alterno ma mi piace l'idea che il movimento sia migliorato, piu' romantico, rallentato e riempibile di immagini particolari, viste ed incamerate.
Qualche tratto ghiaioso, un bell'aspettarsi dove ognuno controlla tutti, badando a se stesso. Pochi chilometri per entrare in una simbiosi che tende ad apparir completa. Bice canticchià , Benito le dice di tacere, Assunta e la Gian chiacchierano amabilmente e Giacomo...Giacomo sembra registrare ogni respiro, per potenziar i suoi ritmi. Bah, fisime d'un ex bolognese non ancora tenace quanto un montanaro prealpino.

VenanzioCorreAncora-capitolo23-

 CAPITOLO 23


Primi passi nella notte che si fa mattino



Sorger del sole nella conca
Primi due chilometri sulla tipica strada sterrata che risale i Misoni, a destra della valle del Tegorzo che si sente a fondo valle, lamentarsi tra i sassi, mentre cerca la sua via verso il Piave.
Camminiamo ed Argo parla in continuazione, tanto da sembrar quasi fastidioso.
Poi spiega il perchè ed allora quel suo essere ciarlatore assume un significato concreto. La presenza dei cinghiali va allontanata facendo sentire la nostra presenza. In quelle ore del mattino risalgono i crinali, verso monte, dopo essersi abbeverati nella notte delle valli fluviali. 
Dopo il bivacco, un'irta conduce al tornante del chilometro terzo, che reca una freccia su di una roccia...A stupirmi, una novità. Nell'insenatura del costone, una teca a forma di trapezio allungato, con cuspide circolare. All'interno un piccolo San Giuseppe col bimbetto in braccio, mi ricordava di santificare il giorno. 
Il capo spedizione spiegò che l'ultima volta che era partito per raggiungere la grotta in cima al monte, meta anch'essa di questa scorribanda invernale e solitaria, era il dicembre dell'anno prima   ed allora un suo caro amico gli aveva regalato una nuova via da scoprire. Una via tracciata dai tedeschi durante la Grande Guerra, il vero Sentiero Rommel, quello sporco ed abbandonato, scomodo ai tracciatori, poichè poco praticato...Perchè un cartello non basta per segnare una via e ci vogliono gambe costanti e braccia laboriose per tenere in vita i camminamenti aspri di una storia che non si è solo vissuta, ma si è molto combattuta su di una montagna a tratti martoriata dall'incedere severo d'una umanità spesso folle...spesso auto distruttrice. 
Ero abbastanza introspettivo quella mattina ma non mancavo d'ascoltare e qualcosa mi stava rimanendo, sia delle cose sentite, sia delle intense emozioni che quel buio che si faceva pian piano piu' diradato, meno fitto, lasciavano dentro, come un sapore di pietanza squisita che gusti, boccone su boccone, senza frenesia di deglutire.

VenanzioCorre Ancora-capitolo22-

CAPITOLO 22

Con la luna


Foto di ArGo
Di buon mattino, un 28 di dicembre , si decise di incontrarsi con un gruppo di camminatori che, alle cinque rintoccate, partiva alla volta d'una croce e d'una grotta in cima a un monte.
Ricordo distintamente le occhiaie della Bice e gli zaini caricati all'inverosimile da Assunta e dalla Gian. Giacomo che ostentava sicurezza e Benito, assonnato ma pronto alla battuta ad ogni appiglio presentatogli.
Io, a dir la verità, non sentivo nessuna preoccupazione ma di certo una grande voglia di scoprire i pezzi del giro che non conoscevo, il sentiero Rommel. Non ci conoscevamo gli uni con gli altri, ma il buio creò subito la giusta condivisione.
Sonia era apparentemente la meno preparata, ma col passare dei minuti, sotto la fronte illuminata dalla torcia, si profilava un'espressione tenace quanto impegnata che di certo l'avrebbe condotta al traguardo. Nei programmi del capocordata , tale Argo, figuro dallo sguardo ruvido e dal camminare spedito ma attento, c'erano da percorrere ventuno chilometri e millequattrocento metri di dislivello positivo. Era il secondo anno che la camminata si faceva, da quel che ci fu detto.
C'erano poi tre trevigiani d'un gruppo di camminata nordica della piana pedemontana. Emanuele, guascone dall'espressione serena e dalla mole imponente; Fabrizio , brizzolato e taciturno istruttore della disciplina e Michele, alto e magro, concentrato e visibilmente riflessivo nel suo essere.
Poi la coppia vassese, Donatella la minuta runner dai capelli color argento ed il marito Aldo, pluri premiato fotografo per passione.
E poi l'altra coppia di Falzè , Nadia , donna alta e muscolare e Daniele, uomo che la prendeva con il giusto coinvolgimento, un naif del movimento.
La luna alta nel cielo buio, adagiata sul suo dorso, giocava a nascondino tra i rami di cima d'una colossale acacia e i primi ticchettii dei bastoncini a siglare l'inizio d'una camminata che cominciava sui primi chilometri dell'amata Campo-SanDaniele-Campo.

sabato 28 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo21-

CAPITOLO 21

"Sulle orme della volpe"

Foto di ArGo
Era deciso avremmo partecipato ad una corsa mitica, conosciuta in tutta italia. Quattromila metri di dislivello e ventiquattro chilometri. Giacomo era tranquillo, ne riparlammo dopo un bel piatto di minestrone, seduti ancora accanto al focolare.
Jonathan si limitava ad ascoltare, mentre Assunta e la Gian vollero metterci la classica "pezza".
< Ah beh, se ce la fate voi ce la facciamo anche noi...> . Il bresciano scoppiò in una fragorosa ed insolente risata, scatenando l'ira delle femmine. Io volevo ridere ma mi morsicai l'interno del labbro, in basso a destra, per trattenere anche solo il mimo d'una risata. 
Si erano veramente inviperite ma in quel momento il campanaccio fuori dalla porta suonò.
Erano Benito e la Bice, eravamo tutti riuniti ed io ero un pò pensieroso perchè mi pareva mancasse qualcuno.
La sera s'era fatta scura e fuori il buio aveva avuto la meglio sulla penombra del dopo tramonto.
Faceva freddo all'esterno e il vetro della mia Alfasud era ghiacciato, sul davanti.
Ero uscito qualche attimo ad odorare il profumo della sera ma mi ero troppo avvicinato alla catasta di legna e il mio olfatto non poteva che rimanere attratto ad oltranza dal profumo della resina.
Tornai in casa con una proposta che rivolsi a tutti. Volevo fare un'uscita d'allenamento su quel percorso probante descritto da un narratore locale, intitolato "Sulle orme della volpe".
Esplicitai il progetto e stabilii che nuovamente saremmo partiti al buio. Soltanto Assunta mugugnò, mentre la Bice accolse l'idea realmente con grande entusiasmo. D'altra parte nessuno scorda quel che accadde a Valdumela, durante un qualcosa del genere.
Lo chiamai "Sentiero Rommel" e stabilii che avremmo camminato solamente...
Ah sì, scordavo il nome della corsa. Non lo dirò ancora e forse ho tratto in inganno, io che narro, piu' di qualcheduno.

venerdì 27 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo20-

CAPITOLO 20

Caminetto acceso ed idee ambiziose


Foto di Placido Mondin
Passarono giorni e poi trascorsero le settimane e la vita in Val di Prada scorreva tranquilla, tra freschezza che portava freddo e gelo che posava la rugiada sui prati ed i pendii della vallata.
A dire il vero era piu'la parte bassa di Schievenin ad essere imbiancata , mentre noi eravamo anche fortunati.
Era un sabato di inizio inverno e mi trovavo nel salone.
Giacomo ancora seduto sulla poltrona a leggere, Jonathan intento a frugar tra le pagine di un vecchio atlante geografico degli anni'70.
Le due donne a sfidarsi in una partita a briscola, con le tipiche carte trevigiane...bastoni, danari, coppe e spade...
Io osservavo ed ascoltavo la legna che ardeva nel caminetto. Avevo imparato a distinguerla e nei giorni in cui avevo voglia di riflettere in un concentrarmi appisolante, usavo i ceppi di pino, quelli che emettevano scoppiettii continui ed un profumo di resina ardente, che era meglio d'un qualsiasi "stecco" d'incenso.
Accesi il portatile ed iniziai a "sfogliare" il web.
Mi attirò una corsa della quale avevo sentito parlare piu' volte ma che avevo tralasciato di considerare, ostaggio spesso dei miei dolori e risentimenti alla schiena.
Nelle fotografie, immagini dolomitiche di cime spoglie, solo infarinate, sulle cime, di neve tardiva.
Un lago bellissimo mi attirava. Sotto ad uno sfondo di pareti scoscese ed altissime, una distesa d'acqua celeste proiettava sul proprio specchio, quelle enormità maestose ed il cielo aperto che si lasciava immortalare, ornandosi di nuvole bianco candido.
Era proprio giunto il momento. Decisi che l'avrei corsa, quantomeno camminata. Mi serviva un compagno, poichè si doveva partecipar in due.
Mi guardai attorno, scartai la giovane baldanza del ragazzo, evitai di considerar le donne, piu' che altro perchè la immaginavo avventura silenziosa e rimasi a scrutare lo storico bresciano, che già una volta m'aveva fatto penare in una corsa a due e mi sarebbe seccato non poco dover accettar l'onta che potesse accadere di aver bisogno di farmi attendere.
Mi avvicinai , portatile in mano, sorrisi beffardo , passando davanti a Jonathan, che rispose con occhiata sveglia e storcer di bocca diabolico, mentre andavo a mostrar la pagina al Giacomo.
< Che dici vecchio? > ...incalzai senza premettere nulla ed aggiunger niente.
< Sei tu che devi sentirti in grado di riuscire, cagionevole amico!>...rispose conciso, schietto, rapido e tagliente come una katana.
L'avevo appena fatta grossa.



giovedì 26 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo19-

CAPITOLO 19

Castel Cesil 
Foto di Placido Mondin

Un cane. Prima che iniziassimo a scendere, venne a noi, un pastore a quattro zampe, affabile di carattere, affamato nel concreto.
Strano, a dire il vero ma non così tanto, giacchè di certo il padrone a quell'ora sarà stato a pranzo e conoscendo il luogo, sarà stato tranquillo, nel lasciar libera la bestia, autonoma sia nell'andar a cercarsi cibo che nel ritornare al capezzale di mandria o gregge. Mangiò qualche biscotto e poi scomparve nella nebbia, così come scomparimmo noi tra i muretti stretti dell'imbocco al sentiero sottostante la croce.
Ripido e curvilineo, il primo tratto sembrava un susseguirsi di trappole naturali. Gradini, umidità, sassi ben celati sotto uno strato poco spesso di terriccio.
Usciti dalla parte murata, un prato scosceso faceva da sede al sentiero, che scendeva melmoso e improvvisamente rettilineo.
Con i piedi di traverso e i bastoncini ben puntati , badavo a Bice che ostentava una sicurezza che ben presto le sarebbe costata un tonfo sordo , col sedere tra la melma...e per fortuna. Un sasso messo male le avrebbe fatto rischiare danni quasi certi alle ossa, pur ben coperte da uno strato di carne, della quale abbondava nelle pieghe tondeggianti delle terga. Lei ne rise e proseguì guascona e serena, come sempre.
Fummo rapidamente al terrapieno dentro al bosco, dove il sentiero si dirama. Noi seguimmo la croce in legno che indicava Castel Cesil, altro agglomerato labirintoide di trincee e resti di manufatti architettonici, riparati però nella boscaglia. Ora lo sono, cent'anni prima erano assolutamente esposti e primo baluardo  di quel colle da conquistare dai soldati.
Oltre i camminamenti un viale discende tra un filare di pini e a terra un tappeto d'aghi è una goduria. Ne fummo colpiti, quasi estasiati e lo superammo con prudenza, così come i successivi dieci minuti di traccia irregolare, sdrucciolevole, infima, confinata a destra da un filo spinato arrugginito.
Poi riprendemmo a correre con lo zaino sobbalzante, giacchè mezzo vuoto, giungendo presto ai prati sopra il Tomba. Tre colli, l'uno dopo l'altro. Betulle, cespugli d'erbe con bacche rosse ormai raggrinzite, una pozza d'abbeveramento e quel profumo d'erba selvatica che entrava grazie all'olfatto e permaneva grazie all'inebriante fragranza che il cervello catalogava con parsimonioso registrare.

mercoledì 25 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo18-

CAPITOLO 18

Il corridor barbuto (Il Cesco)


Foto ArGo, trincee del Palon
Nella discesa verso la strada asfaltata, incontrammo diversi bivacchi rimodernati che un tempo furono baracche di comando e cuccette artigianali. Qualcosa di differente rispetto a quelli visti nelle gallerie. Casette erette a secco, un sasso sopra l'altro, con piccole finestrelle, letti con materasso in legno e stufette che scaldavano un ambiente ristretto, piccolo ma essenziale. 
La ricostruzione era piu' evidente guardando quei manufatti che certamente, esposti ai colpi d'artiglieria, erano stati bombardati.
La nostra corsa, in quelle decine di metri, tra salti in roccia e prato ben irto, s'era fatta piu' rapida e presto fummo a fianco dell'alpin di scaglie, vicino alla sede murata ed imponente della sede ANA di Possagno. Una croce ed una lapide ad eterna memoria, sulla quale era riportato:

" Dalla linea di schieramento
M.Bocaor-M.Meate-Cima Mandria-M.Palon
Gli alpini della 80° Divisione
VIII Raggr.to
Btgg.Levanna-Val Toce-Aosta
Antelao-P.di Cadore-Val Cismon
IX Ragg.to
Btgg.Pelmo-Svello-Exilles
Cervino-Cividale-Saccarello
Dal 24 al 28 ottobre 1918
Attaccarono le posizioni nemiche tra
Col dell'orso-Salaroli-Valderoa-Fontanasecca
Fino alla vittoria finale.

A ricordo del loro valore
e sacrificio
Il gruppo alpini di Possagno 
16 settembre 1990 "


Daniele Cesconetto
Eravamo fermi ad osservare uno sfondo lievemente annebbiato, dove le cime dei Colli Berici erano, si intravedevano appena e la piana era invece soltanto immaginabile.
Ci soffermammo invece sulla sagoma d'un uomo che saliva correndo, tra i tornanti sottostanti il Palo.
Camel bag stretto in vita, frontino che fungeva da cerchiello a raccolta d'una capigliatura ricciola, sul castano rosseggiante ed una barba folta.
Saliva a ritmo costante, come se non esistesse curva o cambio di pendenza, preciso come un metronomo scandente passo su passo,di quell'avanzare possente, nerboruto.
In una decina di minuti aveva fiancheggiato Castel Cesil, sfidando l'irta piu' importante, quasi prendendosi beffa del dislivello costante, poggiato di tornante in tornante su muraglioni a masso squadrato, finemente incastonati alla rupe.
Ci fu di fronte e si fermò a guardarci. Eravamo fisicamente sovrastati da quella sagoma atleticamente forgiata su un'ossatura robusta. Occhi vivaci e sguardo sicuro.
Ricordavo d'averlo veduto a qualche corsetta dei dintorni e forse in qualche pagina del web.
Si presentò, con cadenza tipicamente trevigiana:
< Bondì, sono giusto per Cima Grappa? Di quà non son salito mai. La me par erta...> e sorrise.
Lo salutammo e gli offrimmo del thè caldo che non rifiutò e fummo sorpresi dal comparire d'un sacchetto di Fonzies dal suo zaino, che divorò, bagnato dalla nostra bevanda calda.
Poche chiacchiere, giusto per sapere il cognome, Cesconetto. Uno che aveva corso anche in azzurro nelle cento chilometri.
Ci sembrò d'aver appena conosciuto un mito vero, uno di quelli che con poche chiacchiere segnavano un passo importante della corsa ad impegno probante. Ne avemmo prova vedendolo ripartire. 
Ripartì sulla salita impervia, come se non avesse interrotto mai la sua corsa, aggrappato al suolo con suole di scarpe che parvero cingoli d'un "Panzer" tedesco...e sparì tra le maglie fitte della "caliverna".
Ammirati, decidemmo di scendere ...


lunedì 16 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo17-

CAPITOLO 17

Il vecchio

Non mi sbagliavo. Li', a terra in mezzo al sentiero, poggiato con la schiena su un paletto di sostegno della recinzione di fil spinato,
sedeva un vecchio dalla lunga barba brizzolata e baffo bianco arricciato.
< Seu drio ndar onde? Meio che torneve indrio...>.
Il tono fu severo, schietto, senza ammissione di replica. Teneva in mano un bastoncino appuntito, che stava affilando con una roncola richiudibile, sulla quale ogni tanto, sputava, probabilmente per ravvivare le proprieta' di taglio della lama ricurva, dal color del ferro brunito.
Masticava qualcosa, poteva essere tabacco, considerato l'odore che inizialmente m'era parso di nicotina.
Bice aveva gia' iniziato a ridiscendere. Non comprendeva molto il dialetto locale, ma aveva assecondato il tono perentorio della voce di quel figuro anziano.
Avrei voluto chiedere il perche' di quell'invito a non salire oltre ma mi accontentai del silenzio che segui' l'ordine. In fondo non avevamo alcun bisogno d'andar oltre ed era tempo di cominciare a scendere ed io dovevo anche capire dove diavolo fosse il sentiero che mi era stato citato come "quel de Castel Cesil", da un esperto escursionista querese che conoscevo ed incontravo sovente nei miei allenamenti mattutini verso Paoda, sopra Prada, che scattava fotografie.
Scesi di corsa dopo aver salutato con un cenno della mano.
<Sani...> mi rispose. Un modo come un'altro per dirmi di star bene ma di togliermi di torno.

VenanzioCorreAncora-capitolo16-

CAPITOLO 16

Purgatorio

Bice era uscita da sola, senza aspettarmi ed aveva proseguito lungo il camminamento, fino a trovare la china  nuda, di quel colle del Grappa. Ogni tanto la trincea si interrompeva, dando spazio a semplici sentieri. Mi attese li'.
Io arrivai che stava sorseggiando nuovamente del caffe', me ne offri', rifiutai e ripartimmo, inerpicandoci lungo il Palon, col Piz a vista.
Giacche' la scelta della via da percorrere era ampia, decidemmo di ributtarci dentro alla trincea, sul versante nord, quello che guarda alle vette dolomitiche e al piu' vicino Tomatico.
Ancora osservatori all'aperto , entro a mucchi di  sacchi di sabbia, piccoli e stretti, accatastati come a formare una muratura, interrotta da una assenza saltuaria di quei mattoni particolari, cosi' da costituire finestra. Sopra , del filo spinato arrugginito.
Nei giochi continui di luce ed ombra, del sole tra le nuvole rade ma spostate rapidamente dal vento, verso la cima ebbi piu' volte l'impressione di notare una sagoma , forse un uomo con un cappello d'alpino.
Pensai alla potenza della suggestione mentale, cercando di goderne la magia.
Non parlavamo tra noi da diversi minuti ed era ormai dimenticata la scena goduriosa, dalla quale peraltro era gia' passata un'ora o forse anche di piu'.

Eravamo ormai al vertice alto del Palon, dopo aver camminato sotto una sorta di porticato ed aver curiosato  aprendo una porticina che proteggeva un bivacco incavato sotto il crinale. Due metri per due. Un loculo, in pratica, per aspiranti martiri, una sorta di purgatorio.

VenanzioCorreAncora-capitolo15-

CAPITOLO 15

Le carezze del vento


Era buio pesto, dentro alla grotta. La chiamo grotta ma e' chiaro che quel pertugio non aveva nulla di naturale, chiaramente scavato dalla mano d'uomo che cerca ripari sicuri. Tutto quel versante , chiamato Monte Palon, era stato traformato in una sorta di labirinto , composto da trincee. sottopassi, postazioni di vedetta e pertugi piu' o meno nascosti.
Mi ero fatto serio, pensando a come avevano vissuto i giovani soldati, molti decenni prima, in quei luoghi cupi, freddi ed umidi, spesso nella sola attesa di incontrare una morte stupida ed inutile.
Pensieri che mi accompagnavano all'uscita, mentre un timido fascio di luce biancastra si faceva strada, dietro la curva del cunicolo, divenendo via via bagliore.
L'uscita era anticipata da una sorta di anticamera con una panca in legno, poggiata alla parete rocciosa dalle appuntite sporgenze, posata proprio ai piedi d'una serie di gradini che risalivano un corridoio secondario, in pendenza, dalla larghezza sempre piu' limitata. Non mi meravigliai, di trovarvi, in cima, una postazione di osservazione, ricavata in uno spazio circolare dal soffitto bassi e con uno spioncino che, contornato da quattro piccole assi lignee, puntato sulla pianura trevigiana e sul Montello.
Mi inginocchiai per qualche secondo, poggiando i gomiti al davanzale interno, perfettamente levigato sulla pietra.

Lo sguardo fisso ad osservare quell'immenso spazio aperto, visto dall'alto ed un uccello, forse lo stesso di prima, intento a fare acrobazie sulle ali , sostenute della carezza del vento.

giovedì 12 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo14-

CAPITOLO 14

Gradini al buio

Foto di Placido Mondin
Zaino in spalla e passo spedito sulla strada spianata, che taglia il colle e dirige al Palon.
Un uccello vola basso, radente, pirotecnico nelle sue evoluzioni aeree. E' cosi' rapido che non ne distinguo forma e colore ma sento il sibilo che irride alla nostra lentezza d'esseri non alati.
Bice mi parla, ma di cosa, non saprei. Ho la mente impegnata su quel volatile che tano mi ricorda il gabbiano Jonathan Livingstone, libro letto tanti anni fa e da poco ripreso, pur se solo ascoltato, dal cd, letto e interpretato cosi' bene da quell'attore di fiction televisive, cui assegnare nome non riusciro', tradito dalla memoria che inizia a vacillare.
Ora riaccendo l'audio ed ascolto "la giunonica", cercando di trovare un filo logico al discorso che comincio ad ascoltare dalla sua meta'...Infatti lei non tarda a chiedere, in modalita' prettamente femminile : < Ma mi stai ascoltando...? Oh bello, che ti guardi? Bah, uomini...Come aprlar col muro >.
Siamo ormai all'imbocco del sentiero che immette alle trincee. Tutta salita adesso. Camminiamo perche' c'e' tanto da riflettere, in questo luogo.
Muretti a secco, fatti di sassi accatastati in maniera certosina, l'uno sopra l'altro. Non ciottoli ma pietre piatte, sulla via camminabile...e muretti piu' bassi, che erano la poltrona in tempo di guerra.
Ogni tanto, qualche gradino fa prendere quota piu' in fretta e a circa meta' del camminamento restaurato, sulla sinistra, buio ed incastonato al crinale, tanto da essere nascosto al primo sguardo, un anfratto s'apre un paio di metri piu' in basso, raggiunto scendendo una fila di stretti scalini.
Riaccendo la frontale, mentre Bice, dietro, mi cinge i fianchi, con le paffute mani e stringe, quasi pizzicandomi i maniglioni dell'amore.
Teme, mi dice, quella caverna. Io entro, facendo finta di non sentire le sue lamentanze. In fondo, se non e' sbarrata, la via non puo' essere pericolosa.
Neanche il tempo di pensarlo e schianto la fronte sulla roccia del soffitto d'entrata, al terzo gradino, dopo la curva che dal buio conduce allo scuro piu' scuro.
Impreco in dialetto veneto, dato il luogo, cercando di dar la colpa a Dio, della mia imbranataggine.

Dietro di me, sento un riso beffardo, di lei che poggia il mento sulla spalla e s'accanisce, ricordandomi che il suo timore era ragionevole e la mia falsa sordita' alle sue parole, un buon motivo per essere castigato.
Giro lentamente il collo, per farle notare il mio sguardo infastidito che la invita al silenzio, ma non faccio i conti con l'essere uno scalino piu' giu'. Mi trovo , in un attimo, con il fascio di luce della frontale che illumina la riga che divide i seni floridi e senza poter opporre resistenza al naturale movimento, li carezzo con la punta del naso.
Provo un turbamento misto a vergogna. mi giro repentinamente, sguardo rivolto al buio.
Dietro lei ride. Sono proprio un imbranato

VenanzioCorreAncora-capitolo13-

CAPITOLO 13

Caffe' all'alba

Foto di PLACIDO MONDIN


Una montagna esposta ai venti, che spazzano via le nuvole del primo mattino. Il colle d'erba appena risalito e la luce dell'ultima luna, riflessa nella pozza , ai margini , nel cortile del casolare.
Tre costruzioni rurali, erette a sassi, tipicamente appuntiti, per sfidar il peso della neve degli inverni.
Tutto tace, intorno a noi. Nessun anima che rumoreggi, mentre il giorno inizia a destarsi.
Ci fermiamo bivaccare sotto il bivacco aperto sui quattro lati.Non c'e' riparo dall'aria che spazia libera di volare , dentro e fuori, in un incrocio costante. Spira tagliente, fresca e dispettosa, collaboratrice del risveglio d'ogni senso umano, che man mano la luce aiuta a riscoprire, d'assieme.
C'e' un tetto sopra di noi ed un tavolo precario, di legno tarlato. Sedie sparse , d'ogni forma ed eta', ma comunque vecchie e malandate, sicure di cedere a qualunque peso vi si poggi sopra. Quasi animate, sembrano implorare pieta'. Un cuscino, legato ad uno schienale, sfatto e sfoderato, svolazza incapace di librarsi. Prigioniero dei venti del monte.
Bice si siede sul muro di contenimento di quella casa senza pareti, tenuta su da quattro pilastri imponenti.Osserva silenziosamente quella splendida alba , che colora l'orizzonte d'una tinta arancione , intensa ed attraente. Una distesa di pini fa da didascalia alla conca del Piave, sullo sfondo, con vette dolomitiche rossastre, lontanissime, baciate dal primo timido levar del sole.
Il profumo aromatico del caffe' inebria l'aria ed incensa l'olfatto, che ne gode l'essenza ridestante.
La procace romagnola sorseggia la tazza marrone di plastica dura, con una tale grazia che non dovrei nemmeno soffermarmi su quel posar di labbra, che induce a impuri pensieri.

Quindi mi volto e mi sforzo di indugiare su qualche particolare interessante, ma nulla riesce a distogliermi la mente dalla visione appena goduta, finche'...

mercoledì 11 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo12-

CAPITOLO 12

Malga Barbeghera


Foto di Placido Mondin


L'ultimo strappetto , nel sottobosco, era praticamente incavato nel terreno e risaliva in un doppio tornante tra i pini di vetta. Fuori iniziava ad apparire la prima tenue luce dell'albeggiare.
Uscimmo dal bosco che era prima mattina e davanti a noi si apriva un pendio inerbato con un recinto che circondava, ampio, una malga arroccata sulla cima, duecento metri piu' su, a grandi linee.
Avevo letto in una guida cartografata che ci doveva essere una apposita apertura nella recinzione, che consentiva di prendere la via segnata della cima.
Seguimmo il recinto e, trovato il varco, sollevando il filo spinato ci girammo in direzione est. Nella penombra ci si apri' innanzi una tavolozza naturale alla cui base le cime della pineta sottostante facevano da fondale ad una distesa di luci colorate che altro non erano che i paesi e le citta' della piana triveneta e delle conche basso feltrine defilate sulla sinistra. Semplicemente meraviglioso.
C'era qualcosa di fortemente romantico in quella novella brezza mattutina che tagliente lambiva , arrosando le, le nostre parti scoperte.
L'irta prativa fini' presto,dopo una risalita perpendicolare che ci condusse ad una strada inerbata.
In breve fummo al cancello della grande pozza di abbeveramento, dopo essere saliti affiancando il ricovero bestiame, posto sotto il terrapieno che accoglieva l'invaso d'acqua torbida e le due costruzioni malghive, erette a sassi, una presumibilmente a scopo cucina e convivio e l'altra come giaciglio per le notti dei malgari e pastori. Costruzioni tipiche del Grappa, che nel mio immaginario parevano uscite dai film western di Sergio Leone.

Eravamo a malga Barbeghera, tre chilometri oltre la partenza e cinquecento metri di altitudine , piu' su, a quota 1305 , nei pressi del Monte Palon che avremmo presto raggiunto.

martedì 10 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo11-

CAPITOLO 11

La palizzata di guerra.

Foto di Placido Mondin

Un sentiero avvolto da una pineta accolse i nostri primi passi in salita. I primi duecento metri sulla stradina bianca pianeggiante erano serviti ad imprimere ritmo alla corsa evidentemente viziata dallo stato di lieve incoscienza dovuta al sonno non ancora sopito.
Era strana la compagnia della bice, era forse la prima volta che correvamo soli io e lei.
Tutt'intorno era silenzioso. Un forte profumo si faceva sentire ad un olfatto sempre piu' aperto dalla respirazione intensa richiesta dalla salita. Si confondeva  un'essenza d'ortica, favorita dall'umidita' della notte, che ne esasperava l'intensita' , ad un chiaro ed inebriante gusto olfattivo di resina di pino.
il sentiero, frattanto, s'era fatto fangoso e pendente, inarcato sul pendio sempre piu' irto e scosceso, al limite della sensazione  di vertigini, ancora pero' controllabile. Sul tratto che stavamo percorrendo, anche qualche trancio di tronco di pino, ormai marcito dall'umidita' e una miriade di pietre tra le quali zigzagare, poiche' di discreta dimensione e con punte talvolta visibilmente accuminate.
Bice taceva, ma non era un tacere indotto dalla fatica, quanto piu' un inconsueto immedesimarsi in un ruolo significativo, di elemento facente parte della scena in corso.
Io procedevo salendo rapido e costante con un buon passo, non di corsa, sfruttando appieno la tecnica parallela della camminata nordica. Il movimento, con quei bastoncini, mi riusciva cosi' naturale che non rimpiangevo le limitazioni che dovevo impormi nella corsa. In pratica, in salita, forse cosi procedevo a ritmi ancora piu' elevati che in quella mia ormai desueta e non piu' fattibile corsa scomposta di podista di pianura, improvvisato corridore di montagna. lo percepivo chiaramente; questo nordic walking era la mia nuova frontiera , la sfida accettata e in fase di elaborazione. Un tratto di quel sentiero mi rimase impresso particolarmente. Una svolta a destra a scavalcar la valle, laddove il passaggio era scavato su un enorme masso ed i fautori avevano piazzato una palizzata in legno quale parapetto. Quel punto aveva un sapore antico, richiamava vecchie foto di trincea, giacche' le fattezze di quella cinta di contenimento era del tutto similare a molte viste nelle foto del Grappa, lacerato dalla Guerra del 15/18. Mi sentii, per un attimo, proiettato indietro nel tempo e proseguii con una emozione diversa il sentiero che si faceva piu' aspro, proprio come le mie sensazioni.

VenanzioCorreAncora-capitolo10-

CAPITOLO 10


Quattro e un quarto


Foto di Placido Mondin

Il mattino tardava ad arrivare e la Gian sentendomi dimenare tra le lenzuola felpate, incapaci di cullarmi tanto da ridarmi un sonno tranquillo, mi disse che poco prima, alzandosi, aveva trovato la Bice in salone, pronta ad uscire in allenamento.
Forse preoccupata dall'idea dell'amica in giro sola col buio e probabilmente concentrata sul trovar modo di tranquillizzare me, mi propose di alzarci e seguirla.
La guardai e la vidi molto stanca cosi' le dissi di rimanersene sotto le coperte che con la Bice sarei andato io solo.
Guardai il grande orologio a pendolo, in legno di frassino, che dominava l'angolo di destra della stanza da letto, il quale , con la porta socchiusa da dove filtrava la luce tenue della luna, che si intrometteva dal grande lucernario dell'antro della scala, proiettava sul pavimento e sino ai piedi del lettone matrimoniale, un ombra trapezoidale che si restringeva fino a scomparire sotto il grande baldacchino. D'ora faceva le quattro...
Mi tirai su silenziosamente e scesi. Bice era pronta ad uscire, le feci cenno che sarei andato anch'io e mi attese con aria compiaciuta, adagiandosi sulla prima poltrona a portata di natiche.
Uscimmo di casa che eran le quattro e un quarto, me lo ricordo perche' stabilii che non avremmo corso piu' di due ore, fino al sorgere del primo sole.
Mi disse che saremmo andati con l'Alpine e in un attimo il roboante frastuono della datata sportiva francese, pervase la vallata dirigendosi verso il basso.
La nostra destinazione, decisa al momento, prevedeva d'essere di partenza a Campo, ma giunti la' , ci venne voglia d'altura e quindi risalimmo il "passo" del Monte Tomba.
Il punto di partenza era malga Doc e li' finalmente parcheggiammo. Tutto intorno una visione circolare fatta di monti, insenature e distese pianeggianti che all'orizzonte, una volta che l'alba avrebbe lasciato spazio al giorno, ci avrebbero regalato tenui ma visibili barlumi d'Adriatico.

VenanzioCorreAncora-capitolo9-

CAPITOLO 9


Il profondo buio...

Foto di Placido Mondin


Non so perche' e non riesco a capacitarmene, ma d'improvviso il ricordo di quella giornata appare sfocato, quasi come se nulla fosse mai accaduto.
Tutto intorno è una distesa buia , informe, infinita e senza lettura. 
Ma come? E quella compagnia in cammino?
Quei volti, l'oscurita', il grigiore del cielo?
Niente, nella mente una tabula rasa. Non riuscivo a dare una continuazione...Non riesco, ora a proseguire a fartene racconto caro lettore.
Che tipo strano son'io, fiero in pectore, sicuro ...e poi in un attimo, perso, tramortito dall'ansia di non saper che dire, o forse non volerlo piu' fare.
Poi chissa' cosa mi passera' ora per la testa e quale storia si celi dietro tale smemoratezza?
Mentre me lo chiedo gia' mi do' la risposta e forse la stessa non ti piacera' caro lettore.
E' difficile da ammettere, da dire, da scrivere...
Io son Venanzio, vi ho raccontato d'essere "il corridore di mezza via" ed ora, in questo preciso istante, e' tormentato il pensiero di non riuscire a raccontarvelo piu'...
Sto realizzando che tutto cio' e' un sogno e come tale precede il risveglio.
Mi vedo adesso seduto su un sasso, ad osservare il vuoto che si estende a perdita di sguardo da punta Zoc al mare.
Sento l'aria gelida infilarsi infima tra le fibre della maglia umida, penetrando tra i tessuti della mia schiena e mentre un brivido scuote rapidamente ogni parte di me,mi riaddormento dolcemente e continuo a sognare...
Era solo un incubo. 
Avevo appunto sognato ancora in una delle tante notti in cui…Venanzio Corre ancora

VenanzioCorreAncora-capitolo8-

CAPITOLO 8

Il Nordic Walking ... libertà di andare.


Foto di Placido Mondin
Una salita di poco conto e le gambe del ragazzo che mulinavano sicure verso la casetta sopra la rupe. Il sentiero era uscito dal bosco da pochi metri, quando un melo accolse il gruppo, anticipando l'irta ascesa, pur breve, verso quel bivacco privato. Tutto intorno vi era un orticello recintato , con alte reti che dovevano proteggere i prodotti della terra dai caprioli e dai cinghiali.

Io andavo avanti seguendo la Bice, con passo caracollante, quasi che la voglia di correre stesse per abbandonarmi definitivamente e così dopo una decina di minuti ad arrancare imposi l'avanzata al passo.
Fermai tutti all'improvviso iniziai ad estrarre dallo zaino visibilmente deformato, una serie di bastoncini.
Eravamo ai piedi del Col di Dante.
Mi impegnai pazientemente, dapprima a convincere Benito, che deciso, respingeva l'ipotesi "camminata nordica" ed una volta vinte le sue resistenze , con certosino puntiglio, cominciai a regolare gli attrezzi, giacchè ognuno potesse camminare con un bastoncino a lunghezza regolare per se stesso.
Il passo era drasticamente ridotto in scioltezza , data la presenza di questi estranei elementi, almeno per qualcuno.
Entrammo di nuovo nella boscaglia, dopo aver lambito gli antri di entrata del borghetto del Col di Dante, ove l'edera abbracciava le povere mura dell'abitato e dava a quell'eremo un aspetto forse triste, di certo abbandonato al destino di chi soccomberà inesorabilmente al tempo. Travi penzolanti, vetri di finestra ormai completamente frantumati e grate in ferro che davano l'idea della moda di un tempo andato che proteggeva gli abitanti dagli agenti esterni e da eventuali intrusioni non gradite, rivestendo le case di protezioni ferrose, a loro modo vagamente carcerarie.
Passati oltre il fondo del terreno diveniva fangoso, ma ben camminabile, dato che la sede del sentiero era stata picconata di recente verso monte, allargata quanto bastava a far passeggiare tranquillamente anche i meno esperti tra i viandanti del sottobosco.
Non ci volle molto a giungere alla fine di quel toboga naturale e d'incanto ci trovammo abbagliati dalle luci dell'alba proiettate dal cielo alla val Sassumà. 
Di fronte a noi un' insenatura che aveva tratti panoramici di polinesiano aspetto, tra l'asprezza della roccia ed il verdeggiare dell'umida vegetazione fitta attorno alle cengie verticali molto numersose. In alto a destra un monumento naturale di rara bellezza, la Torre Manuela o forse torre Onigo, non ricordo bene...
Ci avviammo lungo la strada in leggera discesa, pronti ad andare verso la valle dell'inferno.
Tra i tanti, Giovanni "venessian" andava avanti silente e tranquillo, conoscendo la via da esperienze precedenti, lui che era ed è cognato del mastro delle erbe della val di Schievenin, il Vittorio da Venezia.
Il ragazzo teneva il passo e si guardava attorno , pervaso, si notava da una forma evidente di assuefazione a quei paradisiaci scorci.
Io camminavo...
Là dietro forse accadeva qualcosa, mentre il Benito accelerando mugugnava guadagnando strada d'avanscoperta.
Dietro a tutti Giacomo e Bice bisbigliavano e volgendo loro qualche fugace sguardo curioso, si notavano sfregamenti forse non fortuiti, gomito contro gomito.
Tutto intorno era pace, una quiete che la valle donava ai suoi ospiti, senza pretendere silenzi umani, ma inducendone l'essere con fascino ineguagliabile allo sguardo , suoni e profumi naturali inebrianti ...
La valle dell'Inferno era nel suo pieno, ma dava tutt'altra percezione, certamente beata ed angelica.

Un paradiso incavato nel mondo.

VenanzioCorreAncora-capitolo7-

CAPITOLO 7

Alba scura
Foto di Placido Mondin



L'indomani arrivo' in fretta e come da accordi la truppa si ritrovo', mentre ancora l'oscurita' impregnava la val di 
Prada, davanti al cortile di casa Pini.
Il piu' lesto a prepararsi era stato il ragazzo, mentre per ultimo arrivo' Giovanni, non presente la sera prima ma informato sui fatti. La destinazione era stabilita in un luogo che Venanzio non conosceva ma del quale aveva letto. Questo luogo lo descriveva parlando della "Grotta sul Monte".
Per arrivarci avrebbero dovuto portarsi in territorio alanese e da qui' si riprende il discorso iniziato prima di descriver la serata precedente.
Non scesero per l'asfalto ma percorsero sentieri di bosco che presto li portarono alla Chiesa di Schievenin. Era una bella sfida, giacche' tutti consapevoli che prima del ritorno li avrebbero attesi piu' di sessanta chilometri di marcia.
Si' , proprio di marcia, poiche' Pino aveva imposto l'utilizzo dei bastoncini da nordic walking almeno sul piano e nelle salite. 
Era ovvio che il piu' aspro brontolare fu di Benito, che definiva come stampelle quegli astrusi suppellettili, a lui inusuali.
Il piu' tranquillo era Jonathan, partito con l'idea che seguire quei signori piu' anziani non sarebbe poi stata cosi' dura. Giovanni "il Veneziano" conosceva gia' in parte i luoghi e mal che fosse andata sarebbe rientrato per vie brevi.
Giacomo era invece fremente perche' il luogo doveva essere raggiunto percorrendo il sentiero Rommel
Bice invece era silenziosamente infagottata nel pile tecnico.
Davanti a tutti Pino guidava il gruppo risalendo l'asfaltata per Faladen. Saranno state le cinque e mezza ed cielo regalava qualche goccia di flebile pioggia intermittente.
In breve furono nel bosco ed iniziava una salita non ripida ma costante , calpestando un tappeto di ricci di castagno ormai rinsecchiti.

VenanzioCorreAncora-capitolo6-

CAPITOLO 6


Ciottoli, storie di un mondo antico

Quando partirono era ancora buio , un'oscurita' fitta e nell'aria l'umidita' intrisa di freddo penetrava dalle fessure delle sciarpe.
Si incamminarono, poiche' era previsto di procedere al passo. Quell'escursione doveva essere una prova alla quale Pino li voleva sottoporre perche' a breve avrebbero fatto assieme un corso di camminata nordica e lui, unico ormai convinto, con il ragazzo, della validita' della disciplina aveva bisogno di essere cerzo che avessero lo spirito giusto.
La sera precedente aveva radunato tutti in casa, sistemato il tavolo della sala, in centro alla stanza ed acceso il caminetto.
Il braciere emanava un odore di pino ardente con la resina che non ancora del tutto rinsecchita lo arricchiva di balsamiche proprieta'.
Erano presenti , oltre a lui ed alla Gian, la Bice, Benito, il Giacomo ed Assunta, mentre Jonathan , leggermente in disparte si faceva cullare dallo sdraio in vimini, dondolante.
Tutta la compagnia si godeva le poltrone ed il divano , presi dal "robivecchi" qualche settimana prima, provenienti a quanto pareva da un maniero delle montagne atesine, svuotate dagli eredi del casato e date via per pochi spiccioli.
Quei nuovi sofa' si adattavano perfettamente all'arredo gia' presente, con quella loro tinta marron chiaro, della quale la stoffa lievemente ruvida era stata a suo tempo scelta.
Pino aveva delegato al Giacomo un compito, quello di animare la serata a televisore spento, con una lettura particolare quasi dialettale, di un libro che aveva comprato la Gian alla cartoleria alanese da Milio. E alanese era anche l'autore, tal Martino Durighello, studioso e letterato contemporaneo della conca che avevano avuto il piacere di udire in alcuni suoi profondi racconti , fatti in pubblico, inerenti leggende e profezie della cultura locale.
Il libro, intitolato Ciottoli, era un condensato di vita vissuta, narrante i tempi della guerra e della fame di un ottantenne bambino, che con questa testimonianza romanzata stava lasciando ai posteri, pillole di saggezza popolare a rischio estinzione.
Leggeva il Giacomo e gli altri ascoltavano rapiti, poiche' riusciva a declamare e riportare perfettamente le assonanze dei termini dialettali. Era veramente un fine cantastorie lo storico lombardo.
La serata scivolava via tra il soffio sibilante della teiera e il profumo aromatico della tisana alla malva che il Benito "macchiava" strambamente con due gocce di liquore al pino mugo.
Ciottoli scorreva limpido e Giacomo narrava le storie contadine come fossero state sue personali. 
Jonathan s'era assopito e i maschi si alzavano a turno per attizzare il braciere alimentandolo con nuova legna ardente.
Nella penombra della stanza la poltrona del lettore appariva tenuemente lambita dall'intermittente bagliore del focolare ed al suo fianco sedevano sua moglie quasi appisolata e la Bice...La mia Gian dormiva con la testa poggiata sul rientro del comodo giaciglio verticale.
Venanzio osservava e si gustava quell'armonia cercata, voluta e trovata...Volse lo sguardo verso il tappeto ed i piedi di Giacomo; rapido e fuggitivo colse il tocco furtivo e svelto che il piedino della giunonica poso' come una carezza accennata sul dorso dello zoccolo del bresciano.

lunedì 9 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo5-

CAPITOLO 5


I vini della Valgallina

Mentre sopra "il castello" il sole iniziava a far capolino io e la mia Gian preparavamo la stanza ai nostri amici.
Li sistemammo nella solita stanza, ormai divenuta per loro, come una seconda camera del viaggio di nozze. Si portavano quassù per cercare intimità, a volte per ritrovare serenità. Sì , perchè loro non cambiavano mai, erano in perenne ricerca di emozione e spesso la cercavano in maniera molto carnale, forse un tempo piu' la Bice, ma negli ultimi anni anche Benito era divenuto un consistente marpione quasi sessantenne, appetito da piu' di una signora, talvolta anche di qualche signorina, dato che il suo fisico non tradiva smagliature ed il suo estro era davvero accattivante. Il capello rasato con un inconsueta attitudine ad elaborare disegni attorno a baffi e pizzetto, ormai ingrigiti del tutto, ma affascinanti, sotto ad un costante occhiale a goccia, nel quale si specchiava la vita che gli andava incontro, trovando pan per i suoi denti. Forte di un temperamento aggressivo ma contornato da un fare romantico, era il tipico signore di mezza età smaliziato e tonico. Auto sportive, per lo piu' datate, da collezione , abiti griffati, con quella camicia sempre col colletto sollevato e due bottoni aperti , mai incravattato , spesso anzi sgualcito, quasi trasandato, come a voler darsi un'aria da eterno giovane sbarazzino.
Di Bice parlano le ultime parole che ho già espresso prima. Mentre rifacevo il letto, da soli nella stanza mentre la Gian e Benito scaricavano l'auto, non potevo non sbirciare, mentre incassando le lenzuola tra materasso e doghe, dato che così chinata, quella scollatura diventava inesorabile balconata aperta sul mondo, un mondo che non mi lasciava indifferente. Aveva una abbondanza che non lasciava scampo ai miei maschili istinti, tanto che, dopo qualche secondo distoglievo volontariamente lo sguardo per evitare qualsivoglia tentazione.
Il giorno arrivò presto e decidemmo di invitare tutti a pranzo. La solita spaghettata, in attesa di organizzare una cena su da Flavio ed Andrea, ma ci sarebbe stato tempo...
Ne uscì una carbonara eccellente gustata in una tavolata imbandita anche del buon vino portato da Benito che, ci disse si era fermato a Valdobbiadene un paio di giorni senza dirci nulla, perchè voleva girare i vigneti con Berenice, senza nessun'altro a rompere i suoi intenti. Ci parlò di un agriturismo e di essersi fermato in una cantina tra Saccol e Valdobbiadene, trovata in una ricerca su internet, prima di partire da Bologna, sicuro che un buon vino ci avrebbe allietato il periodo. Un'azienda agricola posta in cima ad un vitigno piantato e coltivato su un terreno particolare che, oltre alla bellezza del luogo, ha caratteristiche ideali alla produzione di un frutto qualitativo e conseguentemente di un vino eccellente.
Ci disse che ad accoglierli in un casale, durante la breve passeggiata dal punto in cui avevano abbandonato l'auto tra i vigneti, fu ua signora bionda, con occhi azzurri ed un sorriso accogliente e sincero, che li aveva colpiti per l'accento vagamente teutonico. Una breve visita con assaggi di insaccati e formaggi, bagnati dal liquido eccezionale di loro produzione, durante la quale conobbero anche il padrone di casa, mastro Loris. Peraltro Benito tenne a specificare che in quella taverna aveva visto appeso alla parete, accanto al caminetto, un diploma di un corso di nordic walking ed aveva collegato la cosa a me che sapeva mi ci stavo avvicinando. La sua compagna, Serena, volle anche far loro visitare la cantina , nella quale erano stipati centinaia di cartoni di vini diversi.
La conferma che ciò che anche noi stavamo bevendo, arrivava da quel luogo, l'ebbi guardando l'etichetta, che riportava uno stemma con il tipico animale di campagna apposto, che peraltro richiamava il cognome del casato.
Erano stati in val gallina e noi stavamo bevendo un vino, appunto, di Loris Gallina.

VenanzioCorreAncora-capitolo4-


CAPITOLO 4


La formosa

Le chiaccchiere si fecero lunghe e la notte fonda.
Il sonno arrivo' immediato e profondo, accompagnato da sogni di corse nel bosco, con la nuova compagnia.
Con Giacomo e Giovanni eravamo rimasti d'accordo che nei giorni successivi li avrei portati in allenamento su un percorso nuovo, nel territorio alanese.
L'incognita era rappresentata da un elemeto aggiunto che sarebbe dovuto arrivare a giorni in quell'inverno appena iniziato che gia' prometteva freddi pungenti in scenari da vero e proprio dipinto.
Aspettavamo infatti Benito , ovviamente con la Bice, che avrebbero passato le feste come ospiti da noi. 
Giacomo, all'idea era gia' in fermento, visto che attendeva di rivederli con ansia, a dire il vero piu' Bice che Benito. 
Passo' qualche giorno ed una mattina del mese di dicembre , seduto sul terrazzo in legno, avvolto dentro ad una pesante coperta, sentii da fondo valle un rombo insolito. Ormai avevo bene memorizzato il rumore di ogni singola vettura dei miei paesani ed era evidente che chi stava arrivando non fosse uno di loro.
Infatti in breve ebbi davanti al mio sguardo una fiammante Renault Alpine azzurro cielo, dalla quale vidi scendere dal lato passeggero due gambe scoperte arrampicate su due ginocchia tornite , sopra degli autentici spilli, tacco dodici, tipici della giunonica emiliana formato gran festa.
Da lustrarsi gli occhi... 
Subito dopo scese anche il marito, come sempre sbraitando al mondo che era arrivato. E chi poteva non accorgersene?
Dalla finestra della casa dei bresciani si affaccio' difatti un assonnato Giacomo che, ad onor del vero, ci mise poco a destarsi, impegnato com'era a sbirciare proprio nel mezzo dell'ampia scollatura della Bice, che a dispetto del freddo lasciava, nel vestire di quel giorno, davvero poco spazio all'immaginazione , letteralmente debordando dal maglioncino ad ampia "V", dal quale esplodeva un seno rigoglioso e tonico.
Inutile mentire, ne fui rapito anch' io.