giovedì 12 dicembre 2013

VenanzioCorreAncora-capitolo14-

CAPITOLO 14

Gradini al buio

Foto di Placido Mondin
Zaino in spalla e passo spedito sulla strada spianata, che taglia il colle e dirige al Palon.
Un uccello vola basso, radente, pirotecnico nelle sue evoluzioni aeree. E' cosi' rapido che non ne distinguo forma e colore ma sento il sibilo che irride alla nostra lentezza d'esseri non alati.
Bice mi parla, ma di cosa, non saprei. Ho la mente impegnata su quel volatile che tano mi ricorda il gabbiano Jonathan Livingstone, libro letto tanti anni fa e da poco ripreso, pur se solo ascoltato, dal cd, letto e interpretato cosi' bene da quell'attore di fiction televisive, cui assegnare nome non riusciro', tradito dalla memoria che inizia a vacillare.
Ora riaccendo l'audio ed ascolto "la giunonica", cercando di trovare un filo logico al discorso che comincio ad ascoltare dalla sua meta'...Infatti lei non tarda a chiedere, in modalita' prettamente femminile : < Ma mi stai ascoltando...? Oh bello, che ti guardi? Bah, uomini...Come aprlar col muro >.
Siamo ormai all'imbocco del sentiero che immette alle trincee. Tutta salita adesso. Camminiamo perche' c'e' tanto da riflettere, in questo luogo.
Muretti a secco, fatti di sassi accatastati in maniera certosina, l'uno sopra l'altro. Non ciottoli ma pietre piatte, sulla via camminabile...e muretti piu' bassi, che erano la poltrona in tempo di guerra.
Ogni tanto, qualche gradino fa prendere quota piu' in fretta e a circa meta' del camminamento restaurato, sulla sinistra, buio ed incastonato al crinale, tanto da essere nascosto al primo sguardo, un anfratto s'apre un paio di metri piu' in basso, raggiunto scendendo una fila di stretti scalini.
Riaccendo la frontale, mentre Bice, dietro, mi cinge i fianchi, con le paffute mani e stringe, quasi pizzicandomi i maniglioni dell'amore.
Teme, mi dice, quella caverna. Io entro, facendo finta di non sentire le sue lamentanze. In fondo, se non e' sbarrata, la via non puo' essere pericolosa.
Neanche il tempo di pensarlo e schianto la fronte sulla roccia del soffitto d'entrata, al terzo gradino, dopo la curva che dal buio conduce allo scuro piu' scuro.
Impreco in dialetto veneto, dato il luogo, cercando di dar la colpa a Dio, della mia imbranataggine.

Dietro di me, sento un riso beffardo, di lei che poggia il mento sulla spalla e s'accanisce, ricordandomi che il suo timore era ragionevole e la mia falsa sordita' alle sue parole, un buon motivo per essere castigato.
Giro lentamente il collo, per farle notare il mio sguardo infastidito che la invita al silenzio, ma non faccio i conti con l'essere uno scalino piu' giu'. Mi trovo , in un attimo, con il fascio di luce della frontale che illumina la riga che divide i seni floridi e senza poter opporre resistenza al naturale movimento, li carezzo con la punta del naso.
Provo un turbamento misto a vergogna. mi giro repentinamente, sguardo rivolto al buio.
Dietro lei ride. Sono proprio un imbranato

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